Trentanove5 minuti di lettura

Il 29 maggio 1985 dovevo ancora compiere 5 anni. Non ho ricordi di quella serata, né diretti, né indiretti. La mia famiglia è juventina da generazioni: nonno, padre, zii, cugini. Un feudo. Immagino fossero tutti riuniti, da buoni meridionali, davanti alla tv, pronti a festeggiare la squadra che, prima di tutte, si apprestava a conquistare tutte e tre le coppe continentali. Non ho ricordi, dicevo, e non ho mai sentito parlare nessuno di loro di quella sera. È come se non fosse mai esistita. Quella Coppa non conta, non è celebrata, non è nemmeno raccontata. Storie su Bettega, Scirea, Anastasi, e Furino? Centinaia. Sull’Heysel? Nessuna.

Crescendo, ho letto tutto di quella tragedia: libri, approfondimenti, testimonianze. Non avevo però mai davvero vissuto le emozioni di quella sera. Non finché un giorno, mentre ero in radio con Annamaria Licata e gli amici di RadioJuveWeb, è intervenuta telefonicamente Iuliana Bodnari del Comitato Heysel Reggio Emilia a raccontare lo strazio della mamma di Claudio Zavaroni, una delle vittime. È allora che, più di tutti i libri letti, ho iniziato davvero ad associare la parola Heysel ad una sensazione, tangibile, di dolore. Claudio era uno dei 39. Non era lì in quanto tifoso: faceva il fotografo. Era andato a Bruxelles su invito di un amico per godersi lo spettacolo sportivo, con la sua inseparabile macchina fotografica al seguito.

Già, perché non tutti erano tifosi, quel giorno. Non tutte le vittime erano italiane, e tra gli italiani non tutti erano juventini. C’era anche chi era lì con amici, senza sciarpe al collo, semplicemente perché era bello esserci. C’erano bambini. Uno, Andrea Casula, di 11 anni, non è più tornato. Dico questo perché insultare il ricordo di queste persone, oltre che inumano, è anche profondamente stupido. Era gente andata lì per festeggiare: persone che non avevano fatto male ad una mosca e che non meritavano di morire. Claudio avrebbe compiuto 29 anni qualche giorno dopo. Era nell’elenco dei “dispersi”, quello di chi non aveva contattato i familiari ma che non risultava in nessun ospedale locale e il cui corpo non era stato identificato tra i cadaveri. Fino al giovedì sera mancava all’appello anche un altro ragazzo di Campegine, poi per fortuna rientrato. Provate per un secondo ad immedesimarvi nei genitori in quelle ore infinite, tra speranza e terrore. Poi, alle 12.30 del venerdì, prima il console italiano a Bruxelles e poi il prefetto fecero calare il ghiaccio. Da quel momento, la madre, la signora Adele, è una persona – ripete Iuliana – “morta”.

Ecco, l’Heysel l’ho vissuto così, da adulto, nelle emozioni e nelle parole proprio di gente come Iuliana. L’ho vissuta con i messaggi carichi di gioia ed emoticons che mi scrisse su Facebook subito dopo l’inaugurazione dello Juventus Stadium quando fu trasmessa in tv la parte di spettacolo dedicata alla memoria dei 39. Sapevo già della sorpresa, sapevo tutto, nei dettagli, grazie alle mie solite cinguettate. Le dissi, prima dell’inizio, di guardare in alto, che avrebbero fatto volare qualcosa, che le sarebbe piaciuto, che “finalmente”. Per loro è già “tanto” quello che dovrebbe essere scontato: il ricordo.

L’Heysel l’ho vissuto in silenzio, dietro le quinte, quando mi hanno raccontato delle lettere inviate dalla Juventus ai parenti delle vittime, dopo un silenzio durato troppo a lungo e senza giustificazioni. E della reazione di alcuni di loro: diverse, umane, difficili, comprensibili.

L’ho vissuto quando si è scelto di intitolare una via di Torino alle vittime di quella giornata infame: ne ho seguito in silenzio ma informato tutti i passaggi grazie ad Annamaria e a Iuliana, attive in prima persona. L’ho vissuto tramite loro, le loro emozioni. E, anche se non ero fisicamente presente, ricordo le parole della signora Scirea quando andò a Reggio Emilia dal Comitato, così come quelle di Annamaria che lesse la lettera del Presidente Agnelli.

Lo vivo, purtroppo, anche ora che vorrebbero abbattere quello stadio e farne uno nuovo, cancellando tutto.

È questo il mio Heysel. Sono le persone che ho conosciuto con i loro sentimenti, la gioia, la rabbia, il dolore. Le tappe di riavvicinamento, i tentativi, i rifiuti, la speranza. È quel racconto di Iuliana in radio che descriveva il dolore di una madre. Sono le parole di Caremani, Targia, Laudadio, Franzo e dei tanti che da allora non smettono di raccontare quanto vissuto. Sono loro la testimonianza di quel giorno che, da trentenne, mi fa venire i brividi come se l’avessi vissuto allora.

Ci vuole poco, a volte. Un mazzo di fiori, una lettera, un ricordo, due parole di conforto su Facebook. Non basta, ma aiuta. Ma ci vuole pure poco per fare del male, tanto, di nuovo, come la prima volta. Un coro, un cartellone col -39, un insulto. Rendetevi conto di cosa provocate in queste persone voi che, spesso senza neanche immaginarvelo, credete si possa scherzare su tutto. E se ne renda conto anche chi non stigmatizza certi comportamenti, chi non li censura, chi si gira dall’altra parte, chi non li punisce, chi evita di parlarne, chi non dice una volta per tutte “basta!”.

Non ho molto altro da scrivere su quel giorno. C’è chi l’ha già fatto, meglio di me. Non posso portarvi la mia testimonianza diretta. Resta un abbraccio, virtuale, per chi di quel giorno ha paura, per chi non lo racconta, per chi si è allontanato da allora dal calcio, per chi c’era e per chi non c’è più. Comunque l’abbiate vissuta, l’augurio di superare questo giorno triste e di dolore.

A Rocco, Bruno, Alfons, Giancarlo, al piccolo Andrea e a papà Giovanni, a Nino, Willy, Giuseppina (17 anni), Dirk, Dionisio, Jacques, Eugenio, Francesco, Giancarlo, Alberto, Giovacchino, Roberto, Barbara, Franco, Loris, Gianni, Sergio, Luciano, Luigi, Benito, Patrick, Domenico, Antonio, Claude, Mario, Domenico, Tarcisio, Gianfranco, Giuseppe, Mario, Tarcisio, Jean Michel e Claudio: che possiate riposare in pace.


 

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